VUOTO D'AZIONE Intervista a Gianni Asdrubali
Transfinito, 2011

D: Cos’è per te la pittura

R: E’ uno strumento, niente di più, e come qualsiasi altro strumento la sua specificità non risiede in se stessa ma nel servire ad altro da sé.

D: Vuoi dire che non è la tecnica che muove verso uno spostamento conoscitivo, ma l’idea, la motivazione che sta dietro qualsiasi strumento?

R: Senza la tecnica non è possibile l'opera,, ma la tecnica non deve essere il fine ma deve fondersi con l'idea che le sta a monte e che la origina. Molto spesso invece succede che il fine è lo strumento stesso ed è una noia micidiale, questo accade in periodi vuoti di senso, e allora abbiamo una valanga di tecnicismo, formalismo, decorazione.. l’effimero e la cretineria diventano l’attrattiva “culturale”, insomma non si costruisce un linguaggio. Un linguaggio nasce solo quando lo strumento si annulla, quando si libera da se stesso, quando serve ad altro da sé. Ma per annullare lo strumento bisogna avere un’idea a monte. Il cattivo pittore, il cattivo scrittore o cineasta o altro è quello che non avendo nessuna idea mette in primo piano la pittura, la scrittura ecc.. che dà rilievo al mettere, al sovrapporre lo strumento sullo strumento. Il bravo pittore sa benissimo che la pittura in sé non ha alcun significato, al contrario diventa interessante quando non è più assoggettata alla propria materialità, quando non viene messa, ma quando viene tolta, quando fa spazio e non quando occupa uno spazio. In sostanza non è lo strumento il motore che porta al “senso / non senso” ma è ciò che è prima, ciò che lo muove.

D: E cos’è che lo muove? Cos’è che libera lo strumento da se stesso?

R: Ogni artista ha la sua “verità contraddetta dalla stessa verità” e, nel dargli “corpo”, si serve, PRENDE lo strumento che più gli appartiene (Burri i sacchi, Pollock i barattoli di vernice, Castellani i chiodi, Bill Viola il video ecc..). Nel mio caso ad annullare lo strumento in qualcosa che lo attrae e lo libera da se stesso è il vuoto. Il vuoto è l’attrattore, la forza che scatena l’azione prima. La pienezza “insensata” del vuoto.

D: Mi sembra attinente con quella tua frase di una ventina di anni fa “la pittura inizia la dove io non dipingo”, giusto?

R: Questa frase la dissi nel 1988, ma la intuii nel 1979, con il mio primo lavoro il Muro Magico (mai esposto). Stavo davanti ad una parete bianca, non c’era niente.. Mi accorsi, presi coscienza che proprio questo niente era il motore che spingeva a fare un segno, un’azione verso quella parete. Andò a finire che vomitai una valanga di pittura su quella parete ed esauritasi poi la scarica energetica che quella stessa parete VUOTA aveva scatenato, demolii l’intera parete. Incorniciai non la valanga di pittura che avevo fatto, ma il vuoto, l’attrattore che tale tensione, a fare un segno, aveva provocato. Questo sta a significare che è la zona non dipinta, il foglio bianco, la parete bianca a stimolare il soggetto. L’azione, la pittura, il soggetto non sono protagonisti, ma protagonista è la tensione del vuoto che l’ha generata. Il segno è una conseguenza, è dipendente, è servo di questa tensione e il suo compito è servire e annullarsi nell’immagine di questa antimmagine. Ciò che conta allora non è affermare il soggetto (la pittura) ma dare “corpo”, far sentire il “corpo” di questa tensione, rendere attivo ciò che non si può dipingere… “La pittura inizia là dove io non dipingo”.

D: Quindi tutto il tuo lavoro sta nel fatto di dare, come tu dici, “corpo” alla parte non dipinta attraverso lo strumento della pittura?

R: Dare corpo a ciò che manca, significa servirsi e annullare ciò che è (la pittura)… Ma si può dire anche il contrario: ciò che è (la pittura) in realtà non è perché dipende da ciò che manca (il vuoto). In quest’ultimo caso risulterebbe che il vuoto è reale, in quanto assenza scatenante, e la pittura una conseguenza, in quanto strumento del vuoto. Tutto il mio lavoro di questi 30 anni è stato quello di rendere Piena, Frontale, l’antimmaggine di questa assenza scatenante, dare “corpo” al non senso sensato della zona non dipinta.

D: Tu vai dal pieno al vuoto, dal soggetto alla sua perdita e nonostante ciò questo non porta ad una astrazione, ad una perdita di realtà, ma anzi il tuo lavoro si incarna.. Mi sembra un processo radicalmente opposto rispetto alle correnti artistiche odierne.

R: Si io ho fatto il contrario, di solito c’è prima l’inconscio, poi viene il linguaggio che ci permette di comunicare con il mondo, io vado invece dal linguaggio all’inconscio, dal peso del soggetto alla sua perdita e liberazione, dalla forma dell’immagine al senso insensato e liberatorio dell’antimmaggine. Ma questo retrocedere dal significato alla sua demolizione verso l’oblio non avviene senza lacerazioni, senza l’inevitabile formazione di pieghe temporali, che si compattano, si unificano in un nodo di spazio, dove l’invisibile diventa PIENO… il Corpo senza corpo dell’antimmagine.

D: C’è qualche artista che ti fa pensare a qualcosa di simile?

R: L’unico che mi viene in mente è Carmelo Bene, anche lui nel teatro usa il testo come spazzatura, se ne serve per liberare il significato, i significanti dalle trappole della forma. Anche lui compie quel processo dal pensiero al “de-pensamento” come lui stesso dice: “bisogna essere intelligenti contro la stessa intelligenza (…), essere stupidi, infinitamente stupidi”. La differenza sta nel risultato, lui in questo processo inverso, dall’attore alla “macchina attoriale”, dal testo all’oblio, inventa la “scrittura di scena”. Io annullo la pittura, il suo significato (che non ha), me ne servo per attingere e liberarmi dal peso di me stesso, verso quella zona non dipinta, verso l’inizio del non senso, che nel mio caso prende corpo. Carmelo Bene si perde nell’oblio , io gli do corpo. Tutti e due però abitiamo nel non luogo di ciò che è prima: l’Inizio.

D: Cosa intendi per Inizio?

R: La realtà più estrema, luogo di scuotimenti feroci, punto di scontro e collasso di tutti gli opposti, luogo vitale ma scomodo. È li che nasce lo spazio ed è li che sto. È li che il senso si scontra con il non senso, da qui derivano nuove insensatezze… sensate o viceversa…

gianni asdrubali zunta 2004

ZUNTA

Zosdra insatallata nello spazio urbano
Anno 2004

D: Lo spazio nel tuo lavoro non è astratto, ma ha un’immagine. Spazio Frontale, come tu stesso lo hai definito più volte, nel senso che non sfonda ma ti viene addosso, è cosi?

R: Astrarre, da abstrarre, vuol dire tirarsi fuori, uscire dalla realtà, nel mio lavoro invece succede il contrario. L’urto tra il gesto e il nulla genera materia, cioè spazio, realtà, ci si incarna, si è dentro la realtà. Come dicevo prima, il fine nel mio lavoro non è la pittura, ma è ciò che non c’è, raggiungere attraverso un processo inverso di demolizione del linguaggio, quella zona assente, inumana, e al tempo stesso PIENA, piena di Vuoto. Il niente è così enorme che lo stesso infinito non può contenere. Ciò che non c’è non è infinito, ma al contrario è mostruosamente presente, pieno. È questa pienezza dell’assenza, questo niente pieno di niente che è Frontale. L’infinito sfonda, il vuoto è pieno. L’infinito è astratto, il vuoto ci viene addosso. Ed è prima che il vuoto ci schiacci e ci risucchi dentro, che nell’uomo scatta l’azione, lo stimolo all’azione, la resistenza a vivere, a fare un “Segno” . È in questo scontro tra l’azione e il vuoto che succede qualcosa: Succede lo Spazio. Una bolla di Spazio dentro il Vuoto, una bolla che tenta di resistere allo schiacciamento compatto e pieno del vuoto. E questo spazio non può essere che frontale, perché è nemico e figlio del vuoto stesso, dipende dall’azione e dall’esperienza che si è fatta con il vuoto e non dal concetto di vuoto.

D: Tu non rappresenti il vuoto ma costruisci un’immagine che deriva dal vuoto..

R: Nella civiltà occidentale si è sempre tentato di rappresentare il Vuoto; ma il Vuoto non lo puoi rappresentare, ci puoi solo fare esperienza perché lì c’è la vita, la definisce in quanto opposto...l’unica immagine del vuoto è il pieno. Il vuoto in se non ha immagine ma la contiene in quanto contrario. In definitiva non ho nessun concetto di vuoto, il vuoto sono io, immagine e antimmagine.

D: L’immagine allora dipende da un conflitto tra se e qualcosa che la nega?

R: C’è da distinguere tra immagine intesa come immagine del bombardamento visivo quotidiano e l’immagine invece come VUOTO D’AZIONE, come “figura" data dalla tensione di qualcosa che è fermo mentre si muove, come qualcosa che c’è perché dipende da ciò che manca. Nell’arte, se di arte si tratta, è questo Vuoto d’Azione che ci interessa; ci interessa l’origine, e ciò che si origina porta con sè, davanti, tutto il non originato. E’ in questa ambiguità piena, tra senso e non senso e nella forza della tensione che li tiene uniti e divisi nello stesso istante, che tale immagine resiste al tempo, sto parlando dell’opera d’arte, che è chiusa, ermeticamente chiusa in se stessa, e per questo ci parla.

D: ”Chiusa in se stessa”, allora per te l’arte è il contesto?

R: Assolutamente si. Oggi invece è vero il contrario; l’arte non è autonoma, ha perso la sua specificità e per “esistere” ha bisogno di essere mischiata e sorretta da altri contesti, assoggettata ai nuovi sistemi di produzione... è fragile. Oggi l’artista vuole “comunicare” ed è per questo che non ci parla più. Ma l’artista non deve “comunicare”, non è un telegiornale, non è un messaggero, al contrario è un ricercatore di verità. La comunicazione nell’arte non è in ciò che è detto, ma nella tensione dinamica e tragica di rendere immediato ciò che non si può dire. Insomma la comunicazione nell’arte non è volontaria ma involontaria. È la sua chiusura ad essere comunicativa; è lei il contesto e come tale, non ha bisogno di nulla, neanche dello spettatore.

D: Tu identifichi il tuo spazio come l’immagine piena di qualcosa che non ha immagine, come un conflitto della realtà stessa in perenne divenire, come un equilibrio che si raggiunge solo nel non stare mai fermi, è per questo che nel tuo lavoro c’è molto movimento?

R: Non è che c’è molto movimento, si sente. Nel mio lavoro non si muove niente, non c’è racconto. Tutto è piatto, tutte le dimensioni sono schiacciate nel limite finito della superficie, ma allo stesso istante tutto è volumetrico, a-dimensionale, sottosopra, davanti-dietro, concavo-convesso e così via. Se ci fosse stato il movimento ci sarebbe stato anche il suo racconto, la sua rappresentazione, invece nel mio caso il movimento si sente ma non fai a tempo a vederlo. È questo lo scarto che c’è tra il mio lavoro rispetto al futurismo, all’action painting americana, all’arte cinetica, al noiosissimo e confortevole racconto sociale di oggi, fino a tutte quelle forme d’arte che, per far muovere le cose, hanno bisogno della corrente elettrica, ma se la corrente va via, finito, non c’è più niente. Per tutte queste forme d’arte il movimento era ed è inteso ancora come qualcosa che si muove, come il racconto di se stesso, staccato dalla stasi. Nel mio lavoro invece il movimento dipende ed è connesso alla stasi e viceversa. Queste due estremità si sottintendono pur rimanendo l’una il contrario dell’altra.

D: Si è dentro lo spazio, dentro la realtà, ci si muove insieme ad essa.

R: E se sei dentro lo spazio dove ti aggrappi? Lì non c’è tempo per nessuna rappresentazione; prima che il vuoto ti inghiotta devi fare una azione, è li la vita, la tua vita. Ti muovi in quanto spazio, dentro lo spazio, agito, agitato, autocreato. Dentro questa tempesta, l’attimo tempo-spaziale si è già spostato e io in quanto spazio, mi muovo insieme a questo spostamento. E’ questo rumore che si sente nel mio lavoro, è per questo che tutto si muove ma tutto è fermo. È questa la frontalità. Tutto il rumore del tempo, del dietro/avanti degli infiniti, è schiacciato nel limite finito della superficie.

D: Quindi la superficie per te è qualcosa non limitata al quadro?

R: Non ho mai fatto un quadro, ho fatto uno spazio. I quadri li fa chi racconta, tutto il postmoderno fa i quadri, tutta l’arte sociale fa i quadri. L’artista come postino dell’informazione fa i quadri. Quadri morti, perché sono, non tanto la citazione del ‘900, ma peggio, la restaurazione.

D: Una cosa quindi è fare lo spazio, un’altra invece è raccontarlo..

R: Solo gli eletti lo fanno, gli altri lo raccontano. Quando l’immagine finisce in se stessa, quando non è connessa all’antimmagine è sempre un racconto.

D: Una percezione della realtà illimitata ma contenuta nel limite, giusto?

R: Nella ricerca che sto portando avanti da trent’anni e che ha innescato uno spostamento nella percezione del Vuoto, cioè della realtà, non c’è un assorbimento della forma che sfonda nello spazio infinito, ma al contrario il vuoto SPACCA la forma diventando un’”immagine” nitida e frontale. Zetrico, Azota, Stoide… sono figure di realtà, figure di me, figure di vuoto, cioè antifigure, antiforme. Immagini contraddette, date cioè dalla forza della loro negazione, immagini che si danno e si negano nello stesso istante, dove la loro forza è quella di essere contemporaneamente immagine e antimmagine. Lo spazio è questo limite, è una unità compressa, è la realtà. Non si può uscire dalla realtà, perché non si può uscire dal limite. Il nostro pensiero, la libertà stessa si costruisce sul limite, nel senso che l’illimite non è fuori dal limite, ma dentro il limite stesso. Chi ha creduto di superare il limite per raggiungere l’illimite, non ha superato niente, è solo caduto nel quotidiano, come tutta l’arte di oggi. Bisogna ragionare al contrario, il limite non è una debolezza ma la forza di ogni specifico, è lì il POLITICO, è li che si fa la realtà: il limite è un LIMITE SENZA BORDO.

D: Insieme a Pamela Ferri hai costituito il gruppo Zamuva. Per il Salone del Mobile 2010, siete stati invitati alla Triennale di Milano per esporre, insieme ad altri designer e architetti, la vostra ricerca.

R: Pur rimanendo fortemente nei loro limiti gli specifici possono dialogare perché attratti da una stessa energia che è lo spirito della coscienza di uno spazio universale. Ad accomunarci è la ricerca di una stessa spazialità, la percezione di una forte “frontalità piena” dello spazio. Io la intuii circa trent’anni fa con il Muro Magico (1979), un’opera che fu concepita con la coscienza che l’energia del vuoto è più forte di qualunque azione l’uomo possa fare nel tentativo di darle un senso. Le informazioni avute dal lavoro di Pamela Ferri calzano perfettamente con le mie idee e così, nel 2003, abbiamo deciso di dare un nome a tutto questo: Zamuva.

Gianni Asdrubali

gianni asdrubali stoide 2006

Stoide

Stoide insatallato nello spazio urbano
Anno 2006

gianni asdrubali stoide 2006

ZUNTA

Zunta insatallata nello spazio urbano
Anno 2004