Dialogo su una figura astratta
Dialogo tra Gianni Asdrubali e Giovanni Maria Accame
Nuova Prearo Editore, Milano
1987

D. Irruenti e impetuose, ma al tempo stesso severe, le tue tele appaiono come uno spazio dove s'incontrano segni che sicuramente qui non nascono, ma qui trovano le condizioni per il massimo della loro azione. è quanto mi sembra accada nei tuoi quadri attuali. Nella terminologia della Gestaltpsychologie si direbbe che le tue tele costituiscono un “campo di forze”. Questa forza, concretizzata in un segno che passa, trapassa e si fa struttura, mi sembra proponga il problema di un'astrazione che vuole essere immagine. Un'astrazione cioè che non astrae e non si astrae, che non vuole sottrarre ma caricare la propria presenza sino a fame una figura attraente e al tempo stesso sfuggente.

R. I miei segni sono segni motivati Nascono all'interno di un conflitto esistenziale che si svolge su due costanti: nella coscienza di una impossibilità affermativa del gesto e nella determinazione di una zona morta, preesistente all'azione, che io chiamo zona di senso. In questo conflitto io sono la supercoscienza che controlla e blocca questi segni nell'istante magico del loro apparire e del loro negarsi. Il segno si da e si nega, e questa impossibilità prende corpo in una struttura piena, che diventa la struttura della vostra immagine. L'immagine è la vostra, perché nel momento del suo apparire si stacca da me e diventa di tutti. L'astrazione non è il problema, il problema è l'organizzazione di un'immagine di senso, forte e nuovamente complessa. Un'immagine differente che si costruisce nel vuoto, un'immagine senza padri, perché è figlia di se stessa.

D. La tua pittura ha sempre avuto bisogno di esprimere un'esperienza che nasce da forze contrapposte. Alcuni anni fa il gesto domava la propria violenza e si ripiegava in una forma trattenuta e fremente, oggi la struttura si definisce tramite un movimento il cui centro è l'incessante disperdersi e confermarsi del movimento stesso. Cosa ti porta a far coincidere la rapidità dell'azione con la stabilità dell'immagine?

R. Ciò che importa non è tanto la rapidità dell'azione, quanto il movente psichico che fa scattare il movimento all'azione. L'azione è rapida perché deve bloccare se stessa, il proprio movente che la fa esistere. L'urlo dell'azione deve far emergere il silenzio che le sta alle spalle e poi organizzarlo in un'immagine piena (piena di vuoto). A sua volta l'Immagine diventa comunicativa tramite l'azione che ne blocca il senso e il suo incessante movimento. La rapidità dell'azione e la stabilità dell'immagine sono quindi per me una cosa sola. Perché l'immagine nuova, che è l'immagine del nulla in movimento, le presume tutte e due.

gianni asdrubali aggroblanda 1984

AGGROBLANDA

Pittura industriale su tela
Dimensione 223 x 190 cm
Anno 1984

D. Sappiamo che oggi si sta delineando una vasta e differentemente articolata area di lavoro che, sostanzialmente, ruota attorno a una idea di astrazione dove il confine tra ragione e trasgressione, tra razionalità e azzardo, non tanto ha funzione di separare, quanto di mettere in comunicazione. Al momento di eseguire un tuo lavoro, le due componenti si presentano gi:i strettamente compenetrate o le poni tu a confronto con una operazione più distaccata?

R. A mio parere chi è solo razionale è matto, e chi è solo irrazionale è matto stesso. Non si possono vedere le cose separatamente, c'è sempre un rapporto organico e psicologico tra tutte le cose o valori, anche le più contrastanti, un rapporto questo, che non può essere ignorato, altrimenti si perde il senso di tutto. Il problema quindi, non è né la razionalità né l'azzardo, il problema sono tutti e due, perché tutti e due esistono, quindi bisogna trovare lo scarto, fare il lavoro di sintesi. Massima concentrazione e massima costrizione di tutte le forze in gioco. Questo bisogna fare. Quando lavoro controllo tutto e rompo tutto, ragione e follia convergono e l'opera ne esce intera, e quindi minimale e quindi indivisibile.

D. La forza, la compattezza dei tuoi quadri nasce, paradossalmente, dalla continua lacerazione. Le grandi fasce che tu dipingi raramente convergono, quasi sempre sono divergenti. Il centro della tua pittura non è il centro dei tuoi gesti. Forse è per questo che hai parlato di “vuoto” e di “marmo” come valori conciliabili? Nel senso cioè di un gesto che attraversa la tela e crea un vuoto, ma lascia una traccia resistente e persistente?

R. Il centro della mia pittura è il centro della mia motivazione, e in questo centro tutto esiste. Quando parlo di vuoto parlo di una zona morta che però è anche soprattutto zona di vita, perché è generatrice di senso. Il vuoto fa nascere e spinge in avanti l'azione in un gesto pieno e affermativo, e questo movimento a sua volta si ripiega incessantemente su se stesso fino a farsi struttura, fino a costruirsi come immagine del vuoto. Il vuoto diventa pieno, prende corpo e assume le sembianze del marmo e il marmo è leggero come l'aria.

gianni asdrubali aggancio 1985

AGGANCIO

Pittura industriale su tela
Dimensione 223 x 190 cm
Anno 1985

D. Quest'inverno, poco dopo una mia visita nel tuo studio di Roma, mi hai scritto: “L’importante è costruire un’immagine di senso, complessa, forte e nuova. Qualcosa che sia dentro e fuori il tempo a dispetto del tempo”. E una frase che mi piacque subito perché si opponeva totalmente a un modo di ragionare e di agire nell'arte oggi ancora prevalente. Naturalmente ricordo questa frase perché ne condivido le motivazioni e mi interessa che a dirla sia un'artista giovane. L'esigenza di uscire da questo clima che si compiace di provvisorietà e nostalgia non è, fortunatamente, soltanto tua. Tu, nelle parole e nelle opere, lo indichi probabilmente con più evidenza, forse anche per questo, ad emergere dai tuoi quadri, più che una generica pittura astratta, è una figura astratta, una figura profonda perché emersa dal profondo e, come tu dici, che duri nel tempo a dispetto del tempo.

R. Per un artista, come anche per uno scienziato, o uno scrittore, o un musicista o qualsiasi individuo che fa un lavoro che ha pur sempre a che vedere con la scoperta del nuovo, il suo vero e unico problema è sempre il tempo. Il tempo è ambiguo e bivalente da la possibilità della scoperta, che però esso poi cancella per una nuova scoperta. Oggi mi sembra però lampante, che molti artisti, quelli emersi dopo la Transavanguardia si siano dimenticati la verità di questo assioma (una verità mobile, perché le idee dettate dal tempo, sono incessantemente diverse nel tempo). Molti artisti hanno abbandonato un rapporto diretto e frontale con il mondo (e con il tempo) perché troppo complicato, e hanno agganciato la moda, e la moda di oggi è il Medioevo romanticizzato. Questo fenomeno non è una novità, come alcuni cercano disperatamente di far credere, ma un “annebbiamento” generale che ha toccato un po' tutti. Questo fatto si spiega soltanto con un motivo. La mancanza di idee nuove. Altre giustificazioni non esistono. Quando si rimane senza idee, l'unico rimedio è tornare al Medioevo, ed è bello credere che questo sia una novità. Bisogna sganciarsi nuovamente dalla moda e agganciare il tempo attraverso l'opera. Questa impresa è impossibile, ma è l'unica che ha un senso. Il tempo non ha né inizio né fine, mentre l'opera che è figlia del tempo, ha una sua oggettività, si sa chi l'ha fatta e quando è stata fatta. La scommessa dell'opera è quella di agganciar si al momento [mito di ora, e nello stesso istante al momento infinito di sempre. Se non c'è questa ambizione è inutile fare la pittura, perché è inutile fare qualsiasi cosa. Mi sembra che in questo discorso emerga una morale molto forte. Soltanto che questa morale non è rivolta a nessuno e non salva nessuno: nasce su se stessa e indica se stessa. A proposito di “figura astratta”, io parlerei piuttosto di “figura organica (astratta)”. La mia pittura non è astratta, né tantomeno geometrica, ma sostanzialmente organica.