Vuoto Frontale di una Sacralità Guerriera
Intervista a Gianni Asdrubali
Spazio Architettura, 2008

DOMANDA: Nel tuo lavoro si avverte una forte spazialità, quando hai cominciato a lavorare sullo spazio?

RISPOSTA: Ho dato corpo a ciò che non c’è….il mio lavoro, dal 1979 ad oggi, è sempre stato una ricerca continua dentro la materia, dentro lo spazio (spaziotempo), al fine di visualizzare un’immagine primaria, semplice e complessa insieme, sto parlando dell’inizio, della realtà più estrema, luogo di scuotimenti feroci e per nulla pacifico, punto di scontro e collasso di tutti gli opposti. Ecco, in questo “luogo”, vitale ma scomodo, ci sono dentro.

D: L’inizio è pure il vuoto?

R : Ciò che inizia dipende dalla tensione generata dal vuoto, il vuoto è la realtà e la realtà è strettamente connessa con la sua sparizione. Voglio dire che tutto ciò che inizia dipende da una assenza… ogni nostra azione è stimolata, generata da una tensione, ma da cosa deriva questa tensione? Dal vuoto. La tensione è generata da ciò che non c’è. E per questo che nel vuoto è già contenuto il pieno, il vuoto è pieno di realtà.

D: “Il vuoto è pieno di realtà”; in questa tua affermazione non c’è fondo, non c’è prospettiva quindi, tutto si da frontalmente?

R: Esatto! qui mi piace citare una frase di L.Wittgenstein “ ciò che è nascosto non ci interessa.”. Tutta la zona scura, psichica e infinita è schiacciata nella frontalità piena della superficie… tutta la profondità, tutto ciò che è nascosto, è annullato e compresso nella bidimensionalità piatta della superficie. La profondità non sfonda, è nella superficie. La profondità è la superficie stessa.

D: E' molto intensa la frontalità spaziale che si avverte nel tuo lavoro, come se tutto l’infinito collassasse in un attimo di realtà, in un pieno, come se l’immagine fosse sostenuta da una forte struttura ma al tempo stesso questa struttura non ha consistenza, come se fosse fatta d’aria…

R: Questa frontalità non ha struttura perché è data dal vuoto stesso, dalla tensione generata dal vuoto che, come dicevo prima, tende a comprimere tutta la volumetria spazio-temporale, tutte le distanze, le dimensioni, gli infiniti, nell’unicità finita e piena della superficie. La struttura è l’antistruttura stessa, è l’immagine della sua negazione, per questo la bidimensionalità della superficie è piatta ma pure volumetrica, o meglio: adimensionale

D: Rispetto ad altri artisti, mi viene da pensare ad Anish Kapoor ad esempio, come si differenzia il concetto di vuoto nel tuo lavoro?

R: Kapoor non ha nulla a che fare con il vuoto ma con il buio, riesce benissimo a dare corpo al buio, ma un conto è il buio e un conto è il vuoto. Il buio è la notte, è lo scuro ecc… il vuoto è tutta un’altra cosa. Nella civiltà occidentale si è sempre tentato di rappresentarlo, ma il vuoto non lo puoi rappresentare, non è recensibile perché lì c’è la vita, ci devi fare esperienza, l’unica immagine del vuoto è il pieno…

D: Cioè?

R: L’immagine del vuoto non è il vuoto, non è il buco dove al di là non c’è niente, non è un contenitore che va riempito con l’immaginazione, ma è la conseguenza inevitabile dello scontro della tua azione contro ciò che non c’è. Ed è in questo scontro che si crea lo spazio, la materia, il pieno. In definitiva non ho nessun concetto di vuoto, il vuoto sono io.

D: Ci sei dentro?

R:… E se ci sei dentro, sei agito da dentro, lo spazio sei tu, non pensi lo spazio standone fuori. Se sei dentro il movimento non lo puoi recensire, né programmare, perchè ti muovi anche tu con lui; se sei dentro lo spazio dove ti aggrappi? non c’è tempo per nessuna rappresentazione. Prima di essere inghiottito dal nulla devi fare un’azione, la tua. Se sei dentro l’assenza non racconti l’assenza ma fai involontariamente il contrario. E’ grazie a questa assenza che fai un’azione, che genera spazio, materia, pieno. Tu con la tua azione generata dal nulla in uno scontro frontale con lo stesso nulla. Siamo dentro la realtà, dentro quel nodo fondamentale e contraddittorio che è la vita…

D: Quindi l’azione non dipende tanto dalla volontà umana, ma dal vuoto stesso.

R: Giusto! È per questo che il vuoto sono io, perchè ne sono già contenuto. Come dicevo all’inizio, la tensione generata da ciò che non c’è spinge l’uomo a fare un’azione, quindi il vuoto si serve dell’azione umana per manifestare la sua pienezza, il suo corpo sacro.

D: Ma tu come ti percepisci?

R: Come un pieno, pieno di vuoto. Una sacralità guerriera.

D: Una sacralità guerriera, rispetto a cosa?

R: Il pieno non accoglie e non respinge ma si fa perfettamente i fatti suoi, è autonomo e tutto ciò che è indipendente è involontariamente contro… perché se è autonomo vuol dire che esiste, e se esiste si pone, fa spazio, è spazio pieno di spazio, è un corpo di verità. E’ per questo che in un’epoca dove l’arte ha bisogno di essere sorretta dall’interazione con il pubblico ed asseconda i nuovi sistemi di produzione, questo pieno spiazza e fa paura.

D: Il pieno, cioè l’immagine del vuoto, come tu dici, si da come una nuova percezione della realtà?

R: Questo è inevitabile e dipende dalla ricerca che sto portando avanti da 30 anni e che ha innescato uno spostamento nella percezione del vuoto: il vuoto non assorbe più la forma sfondando lo spazio ma il vuoto SPACCA la forma diventando un’immagine nitida e frontale. Zetrico, Azota, Stoide… sono figure di realtà, figure di me, figure di vuoto, cioè antifigure, antiforme.

D: La verità di una forma allora è data dall’equilibrio tra forma e antiforma, tra verità e contraddizione?

R: Un punto estremo è semplice in quanto è complesso, è il risultato difficilmente raggiungibile di una complessità… Scontro di forze opposte nella tentazione di compressione nel CORPO. Un attimo di pieno in un perfetto ma momentaneo equilibrio, un attimo eterno dentro la fine. L’opera d’arte è questa semplicità, complessa ma mai complicata. L’arte che, è sempre contro tutto ciò che è complicato, principia in quel punto critico, in quel limite tra ciò che c’è e ciò che non c’è. Un’immmagine che si da e si nega nello stesso istante e la cui forza è quella di essere contemporaneamente un’anti-immagine. Quest’immagine, che è data dalla forza della sua negazione, ha coscienza del proprio limite di forma.

D: E se io dico informe?

R: Nell’informe non c’è nessuna coscienza di forma, mentre l’antiforma ha piena coscienza della forma e delle sue trappole ed è per questo che la contraddice spaccandola.

D: Nel tuo fare spazio, essere dentro la materia, prima dicevi che non è possibile un distacco tra te e il movimento perché essendo spazio ti muovi insieme a lui e allora non è possibile neanche un’idea programmatica?

R: No! queste cose appartengono al passato, a quelle forme d’arte che rappresentano un’idea dello spazio, della società, del mondo ecc… cioè di quelle forme d’arte (occidentali) che sono staccate dalla realtà o che ne escono, come l’arte astratta. La rappresentazione, così come un programma sulla realtà, non è la realtà, ma un’idea sulla realtà, tu sei qui e la realtà è là, è staccata… Un conto è lavorare con lo spazio (dalla Land Art al nomadismo), un conto è lavorare sullo spazio (tutta l’arte che rappresenta, che recensisce lo spazio, compreso lo spazio sociale), un conto invece è essere dentro lo spazio; in quest’ultimo caso l’artista, come dicevo prima, è autonomo, è un ricercatore di verità e non un messaggero. Dentro lo spazio, mentre ti muovi insieme al movimento e nell’azione che ne deriva per non esserne risucchiato, si attua non un programma che come tale viene prima dell’azione, ma una organizzazione delle esperienze. Una specie di sistematizzazione dell’intuizione e dell’azione in un nuovo equilibrio, dentro l’entropia totale. Intuizione e azione si danno contemporaneamente, ma non stanno mai ferme, perchè l’attimo tempospaziale che le determina, si sposta continuamente insieme a loro. Una corsa rovinosa, verso e contro quella tensione al nulla che le rovina e le salva.

D: Tu definisci la tua spazialità “frontale”. Questa come si differenzia da altre forme di spazialità?

R: Nell’arte si sono sempre contrapposti due tipi di spazialità, ogni volta con il linguaggio che compete alla propria epoca. Una frontale l’altra prospettica, una viene in avanti l’altra sfonda, una tende al reale l’altra tende ad astrarre (da ab-strarre: uscire dalla realtà). Quella frontale comprime tutte le infinite dimensioni spaziali nel limite finito della superficie, quella prospettica allunga le distanze fino a perdersi con l’immaginazione nell’infinito. Per fare degli esempi: da Pietro Da Cortona a Lucio Fontana si è immaginato e realizzato uno spazio prospettico; a me, invece, appartiene una spazialità frontale, una percezione dello spazio che hanno avuto e visualizzato pittori come il fiammingo Hugo Van der Goes o Manet, ma che è propria anche di compositori contemporanei come Robert Pascal, allievo di Pierre Boulez, e di un architetto come Pamela Ferri con la quale collaboro e con la quale, in varie occasioni, abbiamo lasciato delle dichiarazioni sulla coscienza della spazialità frontale:

« Quando tutte le variabili indipendenti tempo-spaziali dell' avanti-dietro-sotto-sopra, degenerando in una superficie annullano la loro traduzione bidimensionale di alto-basso-destra-sinistra, questa superficie è un limite senza essere bordo che assorbe la tensione drammatica del collasso di tutte le possibili dimensioni tempospaziali. La stessa forza immagazzinata in questo limite, libera completamente la sospensione del nuovo spazio, spaccando e annullando la forma. Una curva non è più una curva, una retta non è più una retta e la loro fusione non è altro che la tensione data dal ripiegamento e dalla compressione di tutte le sezioni di spazio in un'unica superficie.

D: In questa visione mi sembra che concetti come limite/illimite o essere dentro o fuori il quadro vengano rimessi in discussione, il concetto di installazione mi pare che salti.

R: Fuori, dentro… quelli che dicono installazione… oggi si dice molto “un lavoro pensato apposta per lo spazio della galleria”… tutte stupidaggini. Ma cos’è una superficie?... Il quadro, la parete, la piazza, una montagna, il mondo ecc… Tutto questo è la superficie, l’unità piena e compressa, il limite. Non si può uscire dal limite, perché è la realtà. Il nostro pensiero si costruisce sul limite, la libertà stessa si costruisce sul limite. Faccio un altro esempio: se metto una mia opera, che è spazio, su una parete o su un qualsiasi altro spazio quotidiano, questo viene annullato e da inerte diventa attivo, cioè pieno di energia. Che vuol dire? Vuol dire che tutta la parete o un grattacielo o qualsiasi altro spazio, diventa il quadro. Non si può uscire dal quadro perché non si può uscire dal limite. Chi ha creduto di “uscire dal quadro”, di superare il limite sperando di raggiungere l’illimite, non ha raggiunto niente, è solo caduto sul quotidiano. Il limite non è una debolezza ma la forza di ogni specifico. E lì il politico, perché è solo dentro il limite che si può raggiungere l’illimite, le grandi emozioni, lo spirito, il vertice della piramide sulla quale tutti gli specifici tendono. Quando si raggiunge questa spiritualità allora il quadro diventa illimitato. Quando il quadro non è un quadro pur rimanendo un quadro, allora siamo dentro la realtà, dentro lo spazio, dentro quello che io chiamo un limite senza bordo.

D: Allora questo “limite senza bordo”, cioè l’opera, può abitare in qualsiasi luogo, è l’opera che sacralizza il luogo.

R: Se si tratta di arte si! la puoi mettere dove ti pare, anche in un letamaio, si troverà sempre il suo spazio e farà spazio. Non è lo spazio del museo che fa l’opera, è l’opera che fa il museo… anche un letamaio può diventare un museo. Queste cose non le dico solo io, ma vengono da lontano, da quella ricerca di verità che passa da San Francesco fino a Pasolini. Quando un artista rende sacro un cesso allora è un artista, quando un artista rende cesso un museo allora, nel migliore dei casi, è un messaggero.

D: E allora Marcel Duchamp?

R: E' l’unico artista che è riuscito a fare l’opera d’arte invisibile, non c’è bisogno di vedere una sua mostra, in questo caso basta il catalogo. Ma Duchamp è uno e tutti gli altri son nessuno. Sono 90 anni che lo imitano, ma nessuno ha spostato il problema di una virgola. Non ci sono spostamenti significativi dall’orinatoio capovolto di Duchamp alla “merda d’artista” di Piero Manzoni, fino alle ultimissime sceneggiate e pernacchie di oggi... queste variazioni sulle imitazioni possono continuare all’infinito… a chi serve? Al mercato mica all’arte.. Duchamp ha involontariamente scatenato l’imitazione Duchampiana, nonostante ciò funziona solo per lui. Al contrario la forza di Matisse è stata quella di non essere imitabile e anche questo funziona solo per lui.

D: E perché uno è imitabile e l’altro no?

R: Perché il primo esce dallo specifico, sconfina nello spazio sociale e, pacatosi il momento turbolento della provocazione, tutto è molto più facile. Una volta capito il meccanismo intellettuale tutti possono facilmente variarlo e imitarlo. Il secondo non è invece imitabile perché l’azione estetica che è in se stessa politica, si risolve tutta dentro la forza del limite (illimitato) dello specifico. Lo sporco del mondo passa attraverso il filtro linguistico dello specifico e lì, non è possibile nessuna variazione.

D: Torniamo al tuo lavoro... Le immagini ingigantite delle tue opere vengono stampate e proiettate sugli edifici. Si tratta di un’operazione unicamente virtuale o vorresti poter realizzare un‘opera di queste dimensioni?

R: Le mie immagini non hanno dimensioni, lo spazio non ha dimensioni. Le trame del cosmo sono enormi, il microcosmo è gigantesco, ma le dimensioni e le distanze in realtà non esistono, si comprimono per quel che dicevo prima nella frontalità e sfacciataggine della superficie. Tutto ciò che è distante, tutto ciò che è nascosto è annullato nella superficie. Per quel che riguarda le mie immagini virtuali sugli spazi quotidiani dico che queste sono un esempio esplicativo di come un’opera, quando è spazio, annulla e sostiene qualsiasi spazio quotidiano: la superfigura ingigantita, proiettata o stampata su un grattacielo è spazio che sostiene lo spazio. Non è che devo dipingere su una montagna, qui basta la virtualità che in questo caso è costruttiva, esplicativa, perché è sostenuta dall’opera. Prima viene l’opera poi posso fare virtualmente quello che voglio, non va bene quando invece la virtualità è il fine, con l’aurea di "opera d’arte" appiccicatale addosso.

D: Insieme a Pamela Ferri hai costituito il gruppo Zamuva, come mai la collaborazione con questo architetto?

R: Pur rimanendo fortemente nei loro limiti gli specifici possono dialogare perché attratti da una stessa energia che è lo spirito della coscienza di uno spazio universale. Ad accomunarci è la ricerca di una stessa spazialità, la percezione di una forte “frontalità piena” dello spazio cavata dal vuoto. Io la intuii circa trent’anni fa con il Muro Magico (1979), un’opera che fu concepita con la coscienza che l’energia del vuoto è più forte di qualunque azione l’uomo possa fare nel tentativo di darle un senso. Le informazioni avute dal lavoro di Pamela Ferri calzano perfettamente con le mie idee e così, nel 2003, abbiamo deciso di dare un nome a tutto questo: Zamuva. L’intento è di portare avanti parallelamente la ricerca dello Spazio Frontale in arte e in architettura. A tale riguardo cito una frase ratta dal testo scritto dal teorico di architettura Luigi Prestinenza Puglisi su Zamuva e pubblicato su Exibart.onpaper n. 35: «(…) credo che la strada intrapresa da Asdrubali e Ferri possa dare più di qualche spunto di riflessione. Se non altro perché cerca il nesso comune tra le diverse arti nella giusta direzione: quella dello spazio».

D: Come ti rapporti con l’arte contemporanea?

R: Non mi rapporto, la faccio… chi fa l’arte? L’artista! E chi è l’artista? L’individuo per eccellenza, ma l’individuo quando è veramente individuo? Quando si annulla! Quando l’io sparisce e lascia spazio al puro piacere… ecco allora che il momento migliore di un artista è quando la sua azione non dipende dal suo io ma dalla tensione provocata da ciò che non c’è.

D: Quindi l’artista è uno strumento?

R: Si! Uno strumento dell’arte, e se l’artista è uno strumento dell’arte vuol dire che serve solo l’arte e nessun altro. Così dovrebbe essere, ma oggi questa verità si è persa.

D: Cioè?

R: Oggi l’artista dipende e asseconda unicamente i nuovi sistemi di produzione, a tal punto da perdere di vista il suo fine ultimo, lo Spirito. Vedi... l’artista dipende sempre da qualcosa, dalle tribù, dalla chiesa, dai mecenati, dai galleristi, dai musei, dai critici… l’artista è sempre stato dipendente proprio perché l’arte, essendo un bene spirituale, non ha una utilità pratica. Di conseguenza l’artista dipende necessariamente da chi lo fa vivere, ma questo succede dal punto di vista economico e pratico, mica dal punto di vista spirituale. Prima l’artista era sì schiavo dell’economia, ma libero all’interno del proprio lavoro, libero nella sua ricerca di verità. Ed è proprio la ricerca di verità che è saltata, e l’artista è diventato il postino dei nuovi sistemi di produzione. Oggi non c’è differenza tra un reporter e un artista, o meglio la differenza è che il reporter è più bravo, molto più efficace e più utile dell’artista, proprio perché lui lavora dentro il suo specifico che è appunto quello di essere un inviato speciale sulla realtà, un messaggero. Questo non è compito dell’arte. L’arte, come ricerca di verità, ha a che fare con il sacro, e tutto ciò che tende al sacro non può che essere contro e mai a favore dei sistemi di produzione, che cambiano continuamente in ogni epoca ma il fine è sempre lo stesso: il plusvalore del benessere materiale. L’equilibrio tra i sistemi di produzione e l’arte è possibile solo nella loro continua opposizione.

D: Sento in queste tue affermazioni un peso di responsabilità verso l’artista, o no?

R: L’artista è il colpevole, si è venduto, è sparito come individuo. Per questo motivo tutto è in mano ai curatori, ai critici che, non essendoci più l’artista, hanno campo libero, fanno quello che vogliono, sono loro gli artisti, avallano progetti su progetti. Ma in nome di che? Del profitto, del successo sociale sempre più immediato, mica del sacro… Eventi sull’arte e scienza, arte e politica, arte e architettura e filosofia e poesia e... tutto questo agitamento di eventi sta a significare che l’arte non è più autonoma, che avendo perso il suo di specifico, ha bisogno di essere sorretta, mischiata con altri specifici. Non è l’arte che si pone, non è lei il contesto, è il contesto che sorregge l’arte… tutto al servizio di un sistema economico e produttivo di morte. Tutti quei “intellettuali” che osannano “la melange” nata come fenomeno antirazzista, come liberazione etnica… questi pseudointellettuali la usano ai propri fini… falisei ipocriti.. venduti al sistema di morte.

D: Però anche tu collabori con un architetto

R: E che c’entra? Un conto è collaborare, un conto è mischiare i ruoli. Ognuno collabora con chi vuole ma rimane fermo nel suo specifico. Io faccio l’arte, Pamela Ferri fa l’architettura. Non si mischiano gli specifici, la loro forza, il politico, come dicevo prima, è tutto dentro il proprio limite, gli specifici comunicano quando sono autonomi, non quando si mischiano si annullano e diventano un ibrido, le amebe che vediamo un po’ ovunque.

D: E come lo vede il futuro dell’arte?

R: L’individuo è una razza in via di estinzione, sparito quello sparisce tutto, pure l’arte... l’arte o c’e o non c’è, e se c’è gode di ottima salute. Non è che l’arte è in crisi, non è mai esistita una crisi dell’arte. Ma per esserci l’arte ci vuole qualcuno che la faccia, cioè l’artista, l’individuo per eccellenza, ed è proprio quello che oggi manca. Al di là di tutte le fiere internazionali, di tutte le biennali, i musei e tutto il fumo che c’è sul business dell’arte, la poca arte rimasta, è sorretta da pochi individui più o meno conosciuti, sparsi qua e là per il mondo, scomparsi questi ultimi e rari individui non ci sarà più arte e di conseguenza neanche più umanità… Se l’umanità è disumana allora l’arte non è necessaria…. anzi no, l’arte è il contesto e non ha bisogno di niente, neanche dello spettatore.

D: Si è parlato un po’ di tutto, tranne che della pittura, cos’è per te la pittura?

R: Sono un pittore, pittore oltre che artista. In quanto pittore, la pittura non mi interessa; non ne parlo mai perché questa non è il fine. Il vero pittore è quello che annulla la pittura, che si serve della pittura solo come uno strumento.

D: La pittura è uno strumento e il suo fine quale è?

R: … mica vedi la tela, la pittura, il telaio… tutto questo si annulla. Il fine è lo spazio, è l’immagine…, autosufficiente, chiusa in sé, un’immagine che proprio perché è sola riattiva gli stimoli sensoriali e intellettuali dello spettatore… ti prende l’occhio, lo stomaco, il cervello e non ti molla più. L’opera d’arte, a messo che di arte si tratti, attiva l’inerzia del pubblico proprio perché funziona in se stessa, proprio perché non fa parte di nessun contesto. Una sacralità guerriera involontaria che nel momento della sua massima chiusura attiva lo spettatore… è l’opera che reinveta lo spettatore. Se è il contrario, se è il pubblico ad empire il contenitore vuoto dell’arte, vuol dire che il sistema di morte ha vinto.