Una centralità in un limite senza dimensioni
Sintesi di un incontro tra un pittore e un architetto
Dialogo tra Gianni Asdrubali e Pamela Ferri
2 Ottobre - 27 Ottobre 2003
A arte Studio Invernizi

Gianni Asdrubali: ... oltre le dimensioni medie per restare nel limite.

Pamela Ferri: Che cosa intendi per dimensioni medie?

Asdrubali: Il nostro quotidiano, tutto quello che tocco, che vedo e che è chiaramente evidente e scontato come un oggetto, un muro, una tela, un quadro; cioè tutti i corpi che sono ed esistono in uno spazio tridimensionale.

Ferri: Quindi, se capisco bene, l'andare “oltre” le dimensioni medie fa sì che lo spazio diventi superficie pur rimanendo nella realtà quotidiana e, come hai sempre affermato, “non si esce mai fuori dal limite”.

Asdrubali: Sì, questo è importante. Nel mio lavoro la superficie non è la tela o il muro ma il compattamento dello spazio! Allora qualunque velocità diventa evidente e reale ... si traccia una velocità mentale che è infinita nella testa ma finita sulla superficie reale dello spazio ... basta un attimo.

gianni asdrubali zunta 2004

ZUNTA

Zunta installata nello spazio
Anno 2004

Ferri: Un primo esempio potrebbe essere il Tromboloide che hai fatto nel 1992, oppure uno Zoide del 2001 ?

Asdrubali: Certamente; il Tromboloide o uno Zoide usa e va oltre le dimensioni medie (tela, parete ... ) ma non esce dal limite: al contrario tutto si compatta nella chiusura del limite, del finito, del quadro. Tutto divento quadro! Questa opera ritagliata e messa a contatto con la parete ne attiva tutto il suo spazio e in quell'istante tutta la parete divento quadro! Non se ne esce, ci si è dentro.

Ferri: Allora Gianni, per avere una definizione più appropriata, non è soltanto lo spazio a compattarsi ma è lo spazio-tempo che si compatta istante per istante. In questo caso si abbatte il concetto di spazio-tempo assoluto, c'è soltanto lo spazio-tempo relativo (il movimento). Ogni attimo, ogni istante è una sezione dello spazio. Qualunque percorrenza sia curva che retta o curva-retta trapassa questi piani di attimi lasciando dei punti materiali che sono arrivo e partenza di qualcosa.

Asdrubali: È esattamente per questo motivo che nel 1988 ho scritto: “La pittura inizia là dove io non dipingo”. Ma là dove io non dipingo non è fuori dal limite, è il limite stesso. Fuori dal limite non c'è niente. Perché l'illimite non è “al di là” ma è dentro il limite stesso. Il limite è l'unico luogo dove può urlare l'illimite ... l'infinito. Ed il limite è il luogo dello stesso infinito che nella percorrenza complessa dello scavo - che altro non è quello che tu prima intendevi con sezioni nello spazio chiamati attimi - si riduce all'osso, diventa finito, diventa superficie, spazio, frontalità perentoria del vuoto.

Ferri: Quando tu dici che l'infinito si riduce all'osso diventando finito è perché la percorrenza fatta in questi attimi, o per meglio dire scavi, si compatta e diventa la tua superficie di lavoro. Quindi tutto ti viene in faccia.

Asdrubali: Si, tutto ti viene in faccia perché giù nell'abisso non c'è l'infinito, non ci sono le visioni interiori, al contrario c'è la materia, c'è la superficie, la frontalità. Ogni pezzetto dello scavo porta in superficie, trova sempre la superficie che, come ci siamo detti finora, non è la tela, il muro, etc. Ma questo ormai penso sia chiaro. Riprendendo il discorso, il compattamento di tutti questi pezzettini di superficie dà lo “spazio”, dà la mia pittura che, come scrissi nel 1984, “è piena di vuoto e il vuoto è solido come il marmo”: ovvero, il vuoto non è qualcosa che sfonda, non è astratto, ma è qualcosa che viene avanti, che si dà nella mia pittura come immagine di uno spazio fisico e finito, che racchiude cioè in un attimo - in uno schiacciamento dello spazio - tutti i pezzettini d'infinito del continuum degli scavi. Su questa superficie l'esigenza, stimolata dal vuoto, di fare un segno crea materia; ogni pezzetto dello scavo ha in sé la materia e afferma il limite, il finito.

gianni asdrubali zunta 2004

ZUNTA

Zunta installata su parete angolare
Anno 2004

Ferri: Si può chiamare il tuo segno anche “percorrenza”, azione fatta su una superficie che è spazio?

Asdrubali: Si può chiamare in molti modi, purché si tenga presente che il segno, l'azione, il gesto non è il protagonista ma uno strumento della superficie per ottenere la materia, uno strumento che dipende dal magnetismo generato dal vuoto. Questa presa di coscienza si determina nel mio lavoro a partire dal 1978 con il Muro magico; qui si concretizza l'idea che è la superficie (spazio) vuota ad originare l'azione e non l'azione che muove la superficie. L'essere non agisce sul vuoto ma ne è agito, ne è già contenuto. L'essere non è il protagonista, non occupa il vuoto, al contrario dipende dalla tensione generata dal vuoto. Il mio lavoro s'incentra sul tentativo di raggiungere un'immagine di senso della zona non dipinta (del vuoto) attraverso lo strumento della zona dipinta (della pittura). Quindi il mio lavoro non è mai stato quello di raggiungere un'immagine di senso della pittura: piuttosto, un'immagine di senso dell'antipittura fatta con la pittura. Se la pittura è lo strumento, è proprio l'antipittura che diventa materia, che diventa luce, così come l'antifigura diventa figura e il non senso, da cui tutto dipende, diventa senso.

gianni asdrubali zunta 2004

ZUNTA

Pittura industriale su tela
Dimensione 300 x 200 cm
Anno 2004

Ferri: Quindi, se l'antipittura è la materia, giustamente il vuoto è pieno; esso è il risultato continuo dell'urto tra due corpi, il segno e lo scavo: ovvero, in ogni istante si urta un pezzetto di superficie (scavo) ed in ogni istante si ottiene materia.

Asdrubali: Da questo dipende l'estrema “semplificazione”raggiunta nel mio ultimo lavoro Azota. Qui la velocità mentale del gesto si scontra in continuazione con la velocità dello spazio. Il tutto si compatta automaticamente da solo, senza il bisogno di riempire, come accadeva fino ad Azanta, le parti interne che si venivano a formare casualmente nello scontro segnico.

Ferri: Non pensi che quello che stiamo dicendo del tuo lavoro possa farlo paragonare alla scienza?

Asdrubali: Assolutamente no, tutto il mio lavoro non ha niente a che vedere con la scienza. La mia pittura non descrive lo spazio, l'energia, la materia ... Se così fosse avrei intitolato i miei quadri “spazio”, “tempo”, “energia” ... e cose simili. Invece si chiamano Zetrico, Aggroblanda, Tromboloide, Zuscanne, etc. Qui si sta parlando di realtà autonome finite, entità concrete come persone, come Mario, Penelope, Giovanni ...

Ferri: La mia domanda è molto forzata, tuttavia necessaria. Personalmente concordo con te, le tue opere non possono ispirarsi a nessuna scienza perché a mio avviso sono esse stesse una scienza, hanno una loro centralità. è per questo motivo che, da quando conosco la tua arte, ho sempre pensato che è “l’atomo ad avere a che fare con il tuo lavoro e non il tuo lavoro con l’atomo”.

Asdrubali: Verissimo, e questa è una bella differenza!

Ferri: Sicuramente è una bella differenza, perché affermare che è l' “atomo ad avere o che fare con il tuo lavoro” significa capire che i rapporti dimensionali sono cambiati. In questo spostamento di pensiero lo spazio è oggetto e, se l'illimite diventa un supporto finito è inutile parlare di opere che tendono all'infinito, perché in questo spostamento dimensionale il supporto fisico come la tela o una parete (se lo spazio è oggetto), automaticamente si elimina.

Asdrubali: Certo la superficie per me non è la tela o una parete, lo dico da un po' di anni. La superficie è appunto lo spazio come oggetto, cioè lo schiacciamento di tutte le sezioni e dimensioni dello spazio, nel davanti-dietro della superficie. Qui i rapporti fisici sono annullati pur rimanendo dentro il limite fisico del quadro, della parete, della tela e così via.

Ferri: Annullare i rapporti fisici significa che la tua opera è completamente decontestualizzata, ha una sua centralità e non ha bisogno di nessun contesto quotidiano per esistere.

Asdrubali: È per questo motivo che le mie opere, ritagliate e messe a contatto con le pareti come nel caso di un Tromboloide o di uno Zoide, non hanno nulla a che vedere con l’installazione. Le mie opere sono decontestualizzate, mentre l’installazione ha bisogno di un contesto. Nel mio caso qualsiasi spazio espositivo o altro tipo di contesto è nullo, in quanto è risucchiato e annullato nell’opera stessa. La mia arte è centrale e non lascia fuggire il pensiero in false dimensioni. Nel mio lavoro il corpo enigmatico dell’immagine non dipende né dal contesto, né dal racconto di qualcosa che si vede e non si vede, ma si determina nella definizione perentoria di sé stesso. Questa immagine proprio perché è un centro non ha paura di mostrarsi, è frontale e finita, senza ombra, tutta in luce, tutta davanti, chiusa in sé stessa eppure aperta. Più ermetica è la chiusura più il suo contrario (l'aperto) si fa sentire ... Un corpo che appare e scompare nello stesso istante, una figura che si dà come antifigura, un'immagine che è pure la negazione di sé stessa.

gianni asdrubali azota 2004

AZOTA

Pittura industriale su tela
Dimensioni 130 x 160 cm
Anno 2003

Ferri: Quando dici che un corpo appare e scompare nello stesso istante ti riferisci al movimento che c'è nelle tue opere?

Asdrubali: Certamente, perché questo movimento non è raccontato, non è esterno ma è interno, si legge nella statica materializzazione del vuoto. Perché la materializzazione del vuoto è resa evidente dall'urto continuo tra il segno e lo scavo, e ha come risultato un flusso dinamico che si legge istante per istante. Quel “vuoto solido come il marmo”, quel compattamento estremo degli attimi, delle sezioni di spazio, quello “spazio oggetto”, si legge nel movimento dinamico del flusso istante per istante. Ed è questo flusso dinamico che compattato crea uno spiazzamento emotivo ed intellettuale insieme. Uno spiazzamento che non agisce soltanto sullo shock visivo, ma soprattutto sulla memoria psicologica del tempo. Lo spiazzamento dipende sempre dall'imprevedibilità e dall'equilibrio del paradosso. In questo caso il paradosso è dato dalla staticità del movimento. Perché, come ripeto, il movimento è dato dalla percorrenza di tutti gli attimi di scavo che si compattano in superficie, nello spazio-oggetto. Tutto si muove ma tutto è fermo. è per questo che le mie opere non hanno dimensioni e non ho bisogno di girarle per farle muovere.

Ferri: Sono d'accordo, nelle tue opere la dinamicità dell'immagine non è data dallo spostamento fisico del quadro o da chi si muove rispetto al quadro; nel tuo lavoro tutto si muove pur stando fermo perché lo spostamento dimensionale non vale soltanto per la superficie su cui lavori, che non è più la tela, ma anche per il tempo, che non è più assoluto. Tutto accade istante per istante, scavo per scavo. Il segno entra con una certa velocità nello spazio che lo chiama ad agire, ma nello stesso “istante” lo respinge riportandolo in superficie. La forza opposta alla velocità del segno è quella della velocità del compattamento di tutti gli scavi. è l'urto, è lo scontro di due forze. Una è la percorrenza del segno che entra nella superficie, l'altra sono gli scavi che vanno in superficie.

Asdrubali: Sia chiaro che questa non è una nuova superficie ma è “l’opera”: è qui che lo scontro continuo tra il segno e lo scavo viene risucchiato nella materializzazione del vuoto, in una centralità che vive in un limite senza dimensioni.

Ferri: Questo significa che in qualunque punto si percorra lo spazio, c'è già l'opera, è un fatto mentale: significa capire che l'urto non è più visibile nei tuoi quadri come immagine chiara di due forze che si scontrano, come accadeva in Eroica (1988), ma in questo caso l'urto rimane un gesto mentale chiamato dallo spazio ad agire, e nello stesso istante si materializza in superficie come effetto dell'urto. Il forte legame che c'è tra l'urto e il suo effetto porta Azota a risultati estremi.

Asdrubali: Sì. Il risultato è che quest'opera non è dentro il quadro, pur rimanendo fortemente dentro il limite fisico del quadro. Azota annulla e risucchia i confini dimensionali dei limiti nel momento di passaggio tra l'urto e il suo effetto.

Ferri: Quindi il limite fisico in Azota è automaticamente il contesto, è già tutto quadro. Mi sembra di capire che la differenza che c'è con gli altri tuoi lavori sia nella velocità dello spazio fisico a trasformarsi in quadro. In Azota è già tutto quadro, in un Tromboloide o uno Zoide tutto diventa quadro. Azota è lo spazio-quadro, un Tromboloide o uno Zoide diventano spazio-quadro.

Asdrubali: Certamente, nel Tromboloide o nello Zoide la velocità dello spazio nel diventare quadro si svolge in più tempi, cioè nell'azione di ritagliare l'immagine ai bordi dei gesti e nell'applicarla alla parete, che diventa quadro. In Azota la velocità si sintetizza perché i tempi d'azione dello spazio nel diventare quadro si compattano in una sola azione che, come si è detto prima, è il momento di passaggio tra l'urto e il suo effetto. è proprio lì, tra la spazialità mentale e quella fisica che i confini dimensionali del quadro si annullano: lo si capisce vedendo l'immagine stessa, la quale presenta una dilatazione dello spazio non dipinto in rapporto alla zona dipinta. Infatti prima dipingo l'immagine, poi decido il suo spazio a mio piacimento. Prima viene l'immagine, poi decido i confini del telaio, che possono essere vicini all'immagine oppure lontani, o allargati a tutta la parete. La cosa interessante è che dove non c'è pittura, nello spazio bianco vuoto, non si sente nessuna mancanza. Lì, il “nulla” riflette se stesso.

gianni asdrubali zunta 2004

ZUNTA

Zunta insatallata nello spazio urbano
Anno 2004

Ferri: In effetti è impossibile sentire una mancanza, perché anche in questo spazio bianco, che tu hai chiamato riflessione del nulla, ci sono forze opposte all'effetto dell'urto. In questo caso, lo scontro tra la forza del nulla e l'effetto dell'urto crea altre forze in espansione: alcune continuano ad allargare lo spazio del quadro, altre fanno crescere la materia del vuoto. Più spazio c'è più la materia tende ad espandersi. L'espansione della materia non parte però dall'effetto dell'urto nella superficie del quadro, ma da un'espansione, che nel passaggio dall'urto al suo effetto trasporta anche la sensazione d'espansione dell'opera. Sensazione d'espansione, perché nel momento dell'urto, non tutte le forze vanno a materializzarsi nel corpo del vuoto, cioè nell'effetto dell'urto, ma alcune forze si disperdono nella stessa superficie, diventando dei potenziali punti invisibili di richiamo all'espansione della materia.

Asdrubali: Sì, però va specificato che questi punti invisibili non sono la struttura di questo spazio, perché per parlare di struttura - lo sai meglio di me - avrei bisogno di progettare gli spostamenti della materia, e questo non è possibile. Nel mio lavoro non esiste il progetto, perché già si è nello spazio da progettare, già si è nel quadro, non bisogna progettare il quadro.

Ferri: Questa è una differenza fondamentale, perché le tue opere non hanno una maglia strutturale del vuoto, ma si sviluppano per una velocità di pensiero a muoversi nel vuoto. Ho visto la mostra che hai fatto con Enrico Castellani in questa galleria. Penso che il confronto valga a spiegare ciò che sto dicendo, perché per Castellani la materia ha un suo modulo, una sua maglia strutturale, ed il risultato è quello di un vuoto plastico, dove il corpo del vuoto si fa sentire in superficie, non per l'effetto dell'urto, ma facendo sentire la superficie (che continua a non essere la tela). Questa è una partenza diversa del pensiero nel materializzare il vuoto. Il tuo vuoto è già nello spazio, quello plastico di Enrico Castellani dipende dal progetto nello spazio. Di conseguenza il movimento della materia, nella tua opera è la velocità del segno e il suo compattamento in superficie, in Castellani è la rottura del modulo tridimensionale (x, y. z) per manipolare in superficie la superficie.

Asdrubali: Infatti anche in Castellani le dimensioni medie della tela e dei suoi limiti vengono annullati, cosa che non avviene in Fontana, dove la tela rimane tela. Il taglio si apre ad uno spazio che sfonda verso l'infinito, ed è proprio questo taglio che fa sentire la superficie della tela.

gianni asdrubali azota 2004

AZOTA

Azota insatallata nello spazio urbano
Anno 2004

Ferri: In Fontana il taglio è l'opera quindi il corpo del vuoto sfonda, viene risucchiato nel nulla, perde la sua importanza come immagine, quello che rimane oltre questo è la superficie della tela.

Asdrubali: Nel mio lavoro è il contrario, l'infinito diventa finito, quello che conta è proprio il corpo del vuoto e l'opera non è un gesto, ma una materia che vive in un limite senza dimensioni, cioè in una superficie che è spazio. Il segno non fa fuggire la materia ma la porta in superficie. Azota porta al massimo tutto questo. C'è solo un segno e nient'altro, proprio perché è questo “nient’altro” il vero protagonista. è chiaro come il mio lavoro non sia un problema di segno, perché il segno non è il fine ma è solo lo strumento che funziona meglio nel dare corpo a tutto ciò che origina, cioè al vuoto. Il segno (che è al tempo stesso spazio, segno e colore) è lo strumento che il vuoto stesso usa per dipingersi, per raffigurare la frontalità di se stesso.

Ferri: In effetti, ogni segno in Azota ha perso completamente la sua identità quotidiana. La velocità del gesto, nel momento di passaggio dall'urto al suo effetto, è anche la forza di fusione tra linea, spazio e colore. Proprio per questa fusione, si ha una velocità volumetrica del segno che, con il compattamento degli scavi in superficie, rende l'immagine del vuoto, come se non fosse dipinta ma scolpita.

Asdrubali: Infatti, la mia pittura assume le sembianze della scultura proprio per quello che stai dicendo. L'idea di una velocità volumetrica del segno rende molto bene quello che ho sempre detto, cioè che “la mia pittura è piena di vuoto e il vuoto è solido come il marmo”. Ed è proprio questa concezione del vuoto come corpo che ribalta tutto il concetto d'infinito perché, come s'è detto, l'infinito si ribalta nel finito, è contenuto come concretezza fisica e reale nel limite, nello schiacciamento in superficie di tutti i pezzetti del continuum degli scavi. Qui l'alto è anche il basso, il davanti è anche il dietro e tutte le direzioni sottosopra si annullano nell' attimo tragico dello schiacciamento. L'infinito non si romanticizza più, ma si drammatizza come finito, come materia nella frontalità della superficie, e in definitiva della luce; la luce non sfonda ma è mostruosamente frontale e solida come il marmo.

Tuscania, Agosto 2003